Il principio di buona fede nei contratti di franchising
Avv. Silvia Bortolotti
Redattore
1. Norme italiane applicabili ai contratti di franchising.
La disciplina italiana applicabile al contratto di franchising è contenuta nella Legge n. 129 del 6 maggio 2004, rubricata “Norme per la disciplina dell'affiliazione commerciale” (qui di seguito anche “Legge 129/2004”). Tale legge disciplina principalmente gli obblighi di informazione pre-contrattuale, ma regola anche altri aspetti del contratto, come il requisito della forma scritta, l’obbligo di includere determinate clausole nel testo contrattuale e, in caso di contratto a tempo determinato, una durata minima di tre anni.
Un decreto del Ministero delle Attività Produttive (Decreto 204 del 2 settembre 2005, qui di seguito anche “Decreto 204/2005”) detta inoltre alcune norme particolari sulla disclosure, applicabili ai franchisor stranieri che, prima della firma del contratto di franchising, abbiano operato esclusivamente all’estero.
Le norme generali sui contratti previste dal codice civile, come pure i principi elaborati dalla giurisprudenza, sono inoltre ovviamente applicabili ai contratti di franchising.
2. Buona fede nel diritto italiano.
La buona fede è un principio generale previsto dal codice civile, applicabile a tutti i contratti ed obbligazioni. Tale principio era previsto già nel precedente codice civile del 1865 ed è stato nuovamente disciplinato, allargandone l’ambito di applicazione, nell’attuale codice civile (adottato nel 1942).
Ai sensi del codice civile italiano, al principio di buona fede (da intendersi come “lealtà” o “correttezza”) dev’essere improntato il comportamento delle parti sia nella fase delle trattative, che nella conclusione ed esecuzione dei contratti. Tale principio deve ispirare anche l’interpretazione dei testi contrattuali.
L’obbligo di agire secondo buona fede durante la negoziazione dei contratti (previsto dall’art. 1337 c.c.) ha come obiettivo principale quello di tutelare una parte dal recesso ingiustificato dell’altra dalle trattative: la parte non recedente, in tal caso, può essere indennizzata delle spese incorse e delle opportunità perse nel periodo di svolgimento delle trattative (c.d. interesse negativo).
L’obbligo di agire in buona fede durante le trattative può anche implicare l’obbligo di comunicare determinate informazioni all’altra parte, in particolare quando una data informazione sia essenziale per l’altra parte ai fini di decidere se concludere o meno il contratto.
Inoltre, ai sensi dell’art. 1366 c.c. i contratti devono essere interpretati secondo buona fede. L’articolo 1375 c.c. prevede poi che i contratti debbano essere eseguiti in buona fede. Diverse altre disposizioni nel codice civile fanno riferimento alla buona fede.
3. Il principio di buona fede nel franchising.
Il principio di buona fede è stato trasposto nella Legge 129/2004, con specifico riferimento all’obbligo di informazione precontrattuale, che la legge italiana pone a carico di entrambe le parti.
Nello specifico, l’articolo 6 della Legge 129/2004 dispone:
“1. L’affiliante deve tenere, in qualsiasi momento, nei confronti dell’aspirante affiliato, un comportamento ispirato a lealtà, correttezza e buona fede e deve tempestivamente fornire, all’aspirante affiliato, ogni dato e informazione che lo stesso ritenga necessari o utili ai fini della stipulazione del contratto di affiliazione commerciale, a meno che non si tratti di informazioni oggettivamente riservate o la cui divulgazione costituirebbe violazione di diritti di terzi.
2. L’affiliante deve motivare all’aspirante affiliato l’eventuale mancata comunicazione delle informazioni e dei dati dallo stesso richiesti.
3. L’aspirante affiliato deve tenere in qualsiasi momento, nei confronti dell’affiliante, un comportamento improntato a lealtà, correttezza e buona fede e deve fornire, tempestivamente ed in modo esatto e completo, all’affiliante ogni informazione e dato la cui conoscenza risulti necessaria o opportuna ai fini della stipulazione del contratto di affiliazione commerciale, anche se non espressamente richiesti dall’affiliante.”
In aggiunta a questa specifica previsione, anche tutte le altre disposizioni del codice civile che si riferiscono al principio di buona fede si applicano ai contratti di franchising (come ad ogni altro contratto).
Di conseguenza, sia il franchisor sia il franchisee devono comportarsi secondo buona fede durante le trattative, agire in buona fede nell’adempiere alle proprie obbligazioni contrattuali, in caso di risoluzione ecc. Inoltre, il testo dei contratti di franchising deve essere interpretato secondo buona fede.
4. L’applicazione del principio di buona fede ai contratti di franchising da parte dei giudici italiani.
La violazione del principio di buona fede è assai di frequente dedotta dalle parti negli atti del giudizio (non solo nelle cause relative a contratti di franchising); tuttavia, spesso tale pretesa non viene poi accolta dai giudici nelle relative sentenze.
A ciò si aggiunga che, anche quando i giudici fanno riferimento al principio di buona fede nelle loro sentenze, non sempre essi basano la propria decisione su tale principio, menzionandolo piuttosto come obiter dictum, ovvero come statuizione di principio, che non viene però posta alla base della decisione.
Limiteremo pertanto la nostra analisi ai casi in cui le relative sentenze sono state basate sulla violazione del principio di buona fede (come parte della ratio decidendi).
4.1 Buona fede nelle trattative.
In relazione ai contratti di franchising, la violazione dell’art. 1337 c.c. non è stata riconosciuta di frequente dalle Corti italiane.
E’ importante notare infatti che, in caso di applicazione dell’art. 1337 c.c., la parte che agisce per una pretesa violazione del principio di buona fede da parte dell’altra, deve provarla, come pure deve provare i danni che ne sono conseguiti; ciò, in pratica, riduce il numero di casi in cui i giudici riconoscono effettivamente il diritto al risarcimento dei danni. Inoltre, in questi casi, i danni riconosciuti sono limitati al cosiddetto “interesse negativo”, ovvero alle opportunità perse e alle spese sostenute per la trattativa.
In un caso (Tribunale di Roma, sentenza n. 16509 del 5/8/2008), un franchisor aveva negoziato la conclusione di un contratto di franchising con un potenziale franchisee. Quest’ultimo aveva così iniziato ad allestire i locali destinate ad essere utilizzati come punto vendita, secondo le indicazioni fornitegli dal franchisor (colori, marchi ecc.); il franchisor aveva anche provveduto a consegnare al potenziale franchisee il proprio arredamento standard. Tuttavia, successivamente, il franchisor – nonostante le sollecitazioni del potenziale franchisee – non ha mai concluso il contratto.
Il Tribunale di Roma ha deciso che, anche in assenza di un documento firmato dalle parti che prevedesse l’obbligo di concludere il contratto di franchising, fosse stato provato nel giudizio che il potenziale franchisee aveva fatto affidamento, in buona fede, sulla conclusione del contratto; al contrario, il franchisor non era stato capace di provare che il proprio recesso dalle trattative fosse stato giustificato da valide ragioni. Pertanto, il Tribunale ha considerato il comportamento del franchisor in violazione dell’art. 1337 c.c., e l’ha condannato al risarcimento dei danni. Tuttavia, tali danni sono stati limitati ai soli costi sopportati dal potenziale franchisee per allestire i locali (oltre agli interessi) ed ai costi dell’arredamento fornito dal franchisor al franchisee (che questi non aveva ancora pagato).
In un altro caso (Trib. Genova, sentenza del 8/3/2013), il Tribunale ha considerato contrario a buona fede (ovvero all’art. 1337 c.c. come pure all’art. 6 della Legge 129/2004) il comportamento di un franchisor, consistito nel continuare le trattative e nell’addivenire alla successiva conclusione del contratto di franchising con un potenziale franchisee, pur sapendo che quest’ultimo aveva problemi economici e finanziari, che alla fine si erano tradotti nel mancato pagamento di somme dovute al franchisor.
La Corte ha ritenuto entrambe le parti responsabili di reciproche violazioni: in particolare, il franchisor (oltre a tenere il comportamento sopra descritto) non aveva rispettato gli obblighi di informazione pre-contrattuale nei confronti del franchisee (in violazione dell’art. 4 della Legge 129/2004) ed aveva omesso di fornire l’assistenza contrattualmente prevista in seguito alla conclusione del contratto. Il franchisee non aveva invece pagato al franchisor alcune fatture.
Comparando e valutando le rispettive violazioni poste in essere dalle parti, la Corte ha deciso che la violazione dell’obbligo di buona fede da parte del franchisor durante le trattative, per le ragioni sopra esposte, oltre ad essere cronologicamente anteriore alla violazione del franchisee, dovesse considerarsi di tale importanza da attribuire al franchisor la responsabilità della risoluzione del contratto. Di conseguenza, il franchisee è stato esonerato dall’obbligo di pagare le fatture dovute al franchisor e quest’ultimo è stato condannato alle spese del giudizio.
4.2 Buona fede nell’esecuzione del contratto.
La giurisprudenza sviluppatasi in materia d’inadempimento delle obbligazioni contrattuali fa spesso riferimento al principio di buona fede, al fine di supportare o rafforzare eventuali ulteriori violazioni del contratto, poste in essere da una delle parti.
A riguardo si possono citare due decisioni.
Nella prima, il Tribunale di Roma (pronuncia del 4/6/2009) ha ritenuto che la decisione di un franchisee di chiudere il suo punto vendita (decisione intervenuta appena dopo il mancato pagamento di alcune fatture da parte sua e la conseguente escussione di una garanzia da parte del franchisor), senza previamente informare il franchisor, fosse contraria a buona fede. La Corte ha statuito che, nonostante le summenzionate circostanze, il franchisee avrebbe dovuto informare il franchisor della sua intenzione di chiudere il punto vendita dandogli un ragionevole preavviso. Il franchisee è stato pertanto ritenuto responsabile della risoluzione del contratto e condannato al risarcimento dei danni.
In un altro caso (Trib. Nocera Inferiore, 11/3/2013), la circostanza che il franchisee fosse receduto dal contratto dopo un giorno dalla firma del medesimo è stata considerata contraria a buona fede ed il franchisee è stato dichiarato responsabile per la grave violazione del contratto e condannato al risarcimento dei danni.
4.3 Interpretazione del contratto secondo buona fede.
In un altro caso, il Tribunale di Isernia (pronuncia del 12/4/2006) ha applicato il principio di buona fede all’interpretazione di una clausola di un contratto di franchising.
In questo caso, l’art. 2 del contratto prevedeva l’obbligo del franchisor di non nominare altri franchisee, ma legittimava espressamente il franchisor a concludere contratti diversi da quelli di franchising nel territorio.
Ad un certo punto, durante l’esecuzione del contratto, il franchisor ha iniziato ad offrire I suoi prodotti ai clienti del territorio a prezzi molto più bassi di quelli applicati dal franchisee. Utilizzando una strategia così aggressiva, il franchisor riusciva così ad acquisire tutti i principali clienti del franchisee.
Sulle basi delle predette circostanze, la Corte ha deciso che l’art. 2 dovesse essere interpretato secondo buona fede (come da art. 1366 c.c.) e pertanto non nel senso di legittimare il franchisor a buttare il franchisee fuori dal mercato, comportandosi scorrettamente nei suoi confronti. Il comportamento del franchisor è stato infatti considerato dalla Corte contrario al generale obbligo di cooperazione (che costituisce l’essenza del contratto di franchising) come pure un abuso di dipendenza economica. Di conseguenza, la Corte ha dichiarato il contratto risolto per gravi violazioni da parte del franchisor e lo ha condannato al risarcimento dei danni.
5. Conclusioni.
Il principio di buona fede è applicato dalle Corti italiane (nelle controversie relative al franchising come pure in quelle riguardanti altri tipi di contratti) con un notevole margine di discrezionalità.
Le Corti lo applicano nella valutazione del comportamento delle parti come pure della gravità delle rispettive violazioni; talvolta, per colmare lacune lasciate dalle disposizioni contrattuali o per interpretare queste ultime in modo “equo”.
Tuttavia, ovviamente, tale applicazione deve avvenire nel rispetto della legge, conformemente ai contenuti dei contratti applicabili ed alla luce delle prove fornite dalle parti nell’ambito del giudizio.
Silvia Bortolotti